Secondo appuntamento con i pensieri che la scrittrice Valentina Diana ci regala per il blog della Gang.

Lunga vita ai pezzettini.

 

Vorrei parlare di Anni lenti, di Aramburu, dell’alternanza tra narrazione dettagliata e rapidi schizzi programmatici, domande, ipotesi; di come lo svelare a intervalli regolari l’ingranaggio dell’invenzione, la renda più credibile, più profonda e, sì, più vera.

Quello che mi interessa è il ragionare intorno a una storia nell’atto di raccontarla, il fare, della narrazione, uno strumento di pensiero e non (solo) di illusione.

Anni lenti viene prima di Patria, ma è interessante leggerlo dopo, perché, in un certo qual modo, ne svela l’impianto. Si potrebbe dire che Anni lenti sia la sinopia di Patria.

Non so se lo si potrebbe dire, forse no, ma io lo dico. Non fa male a nessuno ragionare sulle cose, metterle in relazione e fare supposizioni.
Qualche giorno fa mi interrogavo sull’illusione, su come accada che, da una porzione limitata, circoscritta di realtà, si possa creare, appunto, l’illusione del tutto.

E mi è venuto in mente il cinema. Il cinema fa questo all’ennesima potenza: illude. Crea l’impressione di un cerchio chiuso, ma in realtà, è lo spettatore, che chiude il cerchio. Sono fotogrammi. Una vita, due vita, mille vite, in poco più di un’ora.
L’accostamento, la giustapposizione, la selezione delle immagini e delle situazioni, questo.
Allora ho cercato un libro che parlasse di teoria del montaggio, perché volevo capire se quello che avevo pensato avesse un senso.
Non l’ho trovato. In compenso ho trovato, tra gli scaffali in biblioteca, un manuale di sceneggiatura.

Odio i manuali. Niente da fare. Ma nello stesso tempo ne subisco il fascino. Mi viene sempre da pensare: Ecco, tu che hai le idee perennemente confuse, tu che vieni da una pozzanghera, lavati, renditi candidi i pensieri, leggi questo manuale che ti cambierà la vita perché, dopo averlo letto, tu saprai. Avrai il know how che sempre, da sempre, ti è mancato.
Non volevo leggere un manuale di sceneggiatura, no no, sentivo che mi stavo allontanando dal mio ragionare, che qualcosa, una forza brutta imperiosa e vincente, mi stava trascinando verso l’acquisizione di una certa verità
Ho aperto il manuale e c’era scritto: Questo manuale serve per scrivere delle sceneggiature che vendano, che siano, vediamo vediamo: vincenti.
e poi c’era scritto che quando vuoi scrivere un film (ma credo l’autore avrebbe sottoscritto il discorso anche per la narrativa) devi prima decidere la storia, ossia rispondere alla domanda Di cosa parla?
Di cosa parla?

Un manager si innamora di una puttana
una puttana si innamora di un prete
un prete si innamora di una mucca
una mucca si innamora di uno scrittore

vabbè

e poi: il titolo.

pretty woman
redenzione e perdizione
la grande mamma
lo spazio bianco
no, no, no, pensavo. Chiudi questo manuale al più presto.
Ma alla fine di ogni capitolo del manuale c’era scritto: non avete la storia? Non avete il titolo? Forse non siete adatti a scrivere un film.

Per tornare ad Aramburu, la storia c’è.

C’è, sia in anni lenti che in Patria. Ma la storia è poca cosa, si potrebbe riassumere in pochissime parole.

Un uomo, una voce, racconta di come la gente subisca il fascino e soccomba sotto il peso insostenibile delle bandiere. (è una semplificazione mia, la prima che mi viene in mente).
Ma ciò di cui si parla è altro, è più sottile. Un movimento di empatia, la difficoltà a distinguere il torto dalla ragione, l’umana fragilità, la debolezza, la voglia di non morire,

e altro. Molto altro ancora, che sta nel libro, nei libri, che sta nel loro essere stati scritti da qualcuno che. per tutto il tempo, insieme alle parole, mostra anche la propri faccia.