Raccogliersi

Ho amato tante cose nella mia vita, ma nessuna mi ha mai fatto dire: sono nata per questo, sì.

Quando recitavo mi piaceva scrivere su foglietti di carta delle cose che lasciavo nei camerini: resoconti, per la compagnia. Qualcuno li leggeva e diceva Tu dovresti scrivere.

Io pensavo che intendesse: dovresti scrivere, invece di recitare.

Poi, quando ho smesso di recitare e ho fatto tutti quei lavori che esponevano alle intemperie, con il corpo, con le mani. Lavori col cappellino di lana la mascherina per filtrare le polveri, pensavo Ora tu sarai questo.

Ma scrivevo poesie, mi tenevo aggrappata a dei fili di ragnatela, per non sentirmi centrata da un vero destino.

Per non appoggiarmi con tutto il peso e dire, sono arrivata.

Dopo, scrivendo, le mani e il corpo si ribellavano, volevano fare disegnini o semplici cose, affondare nella terra, sgobbare.

Mai sono riuscita a dire Sto qui, sono di preciso questo, pace.

(L’altro giorno mio figlio, mentre faccio saltare una patata bollita tagliata a fettine con del formaggio grattugiato di colpo dice: dovevi fare un master di economia, cosi ti trovavi un lavoro).

Te ne vai in giro. Scrivi sdraiata sul letto. Ripari la scarpiera. Sogni persone che non vedrai mai più. Raccogli legna. Parli al cane.

Pensavo ad Aristodemo, dico al telefono a D, quando Agatone lo accoglie nel simposio dicendo Hai fatto bene a venire, ti volevo invitare, ti ho cercato, ma non ti trovavo da nessuna parte.

Dai.

Quanto poteva essere grande Atene, per non trovare uno che vuoi trovare? L’avrà cercato cinque minuti e poi si sarà detto Pazienza, Aristodemo lo inviteremo la prossima volta – Dico al telefono a D, che sta mangiando bruscolini.

Ma ad Atene c’era un sacco di gente – dice D. – cerca su google, quanta gente c’era ad Atene al tempo di Socrate.

Sarà, dico, ma Aristodemo, non so, deve averlo sentito che non era imprescindibile.

E così mi interessa molto Aristodemo, il suo passare oltre, il suo lasciar correre.
E poi mi viene in mente che tutte le cose non stanno insieme. Sono sempre pezzi, parti, frammenti.

Siamo pezzi di qualcosa il cui l’intero, forse, non sta nemmeno in noi.