Il 14 settembre del 2017  per Marsilio è uscito La guerra dei Murazzi, di Enrico Remmert. Un libro che abbiamo letto, amato, presentato, consigliato, condiviso, anche grazie alla generosità del suo autore, che non si è mai tirato indietro quando si è trattato di esserci e raccontarsi.

A poco più di un anno dalla sua pubblicazione, La guerra dei Murazzi ha vinto i tre premi più importanti riservati ai libri di racconti: il Premio Chiara, il Premio Settembrini e il Premio Cocito. Noi siamo felicissimi per Enrico, e, per l’occasione, abbiamo scelto di condividere con voi la bellissima recensione che aveva fatto – a suo tempo – Massimo Tosatto, lettore infaticabile e colonna portante della Gang.

Per noi, da librai, è una vera soddisfazione vedere che un libro ha un libro una vita più lunga, sullo scaffale, e fare in modo che ci – e vi – accompagni negli anni, in un momento in cui tutte le storie sembrano nate per essere gettate in pasto al mondo e dimenticate subito dopo.

Buona lettura, amici della Gang.

 

Come generazione, non ci è capitato granché.

I nostri predecessori negli ultimi due secoli hanno avuto guerre, rivoluzioni, risorgimenti, boom economici, ’68. Dal ’77 avremmo dovuto capire che tutto stava finendo in vacca. Infatti, quando è toccato a noi, ecco il riflusso, l’AIDS, e i Righeira.
Niente epica, niente grandi romanzi o sollevazioni di popoli. Personaggi ostinatamente singolari, incapaci di riunirsi con un solo grido come nei grandi romanzi ottocenteschi, in cui una sola mente sembrava muovere le folle in piazza. Niente costruzione del mito, solo una terra desolata intorno a noi.
Anche i romanzi di molti scrittori si arrendono alla narrazione. Nascono come dei borborigmi, basati sullo scrittore come ombelico del mondo. Un borbottio senza fine, una lamentazione, una sega mentale, in cui l’autoflagellazione prevale sulla trama, sui personaggi, sui dialoghi.
Invece Enrico Remmert non si arrende. Affonda nella sua e nella nostra giovinezza e ci tira fuori questa “Guerra dei Murazzi”, per ricordarci che anche noi possediamo una nostra narrazione, una mitologia.

Fatta di cameriere, immigrati, spacciatori, buttafuori, dj, ragazze e ragazzi ubriachi, tutti sulla sponda sinistra di quel fiume, il Po, che attraversa Torino come un vena di sangue in un corpo.
E se vi sembra poco, beh, Hemingway in Festa Mobile e Kerouac in Sulla strada non parlavano di molto altro. Chiaro che con Hemingway ti imbattevi in Henry Miller o Fitzgerald, con Kerouac in Ginsberg e Charlie Parker, mentre ai Muri se ti andava bene non ti beccavi due sberle da un ultras, ma ognuno ha quel che si merita.

E in fondo, a quei tempi, almeno Remmert c’era dalle parti di Giancarlo.
Occorre però chiudere subito il borsone della malinconia. La Guerra dei Murazzi è un racconto, non una rievocazione. Ci sono personaggi, dialoghi, una storia, e un finale strappabudella. Non ci sono grosse menate, nel senso di seghe mentali, ma eventi, oggetti, luoghi tangibili.
Forse non ci siamo più abituati, ci piace lo sparlarsi addosso, mentre raccontare, andare da A a B e cambiare i personaggi che ci sono dentro una storia è più difficile. Meglio farli provare e fallire. E poi c’è il racconto, una forma desueta, dato che scrivere romanzi ormai lo fanno tutti. Ma una forma che non lascia scampo, in quelle pagine devi mettere tutto.
E Remmert ci riesce, forse con abbastanza materiale per due romanzi, se si volesse sproloquiare.
“La Guerra dei Murazzi” è solo il primo racconto di quattro. Nel secondo si devia verso Venezia a un evento organizzato per una convention di parrucchiere. Nel terzo, Remmert compie un viaggio nel passato a Cuba, negli anni ’90, con tre impudenti ragazzotti mandati a indagare un improbabile investimento.
In tutti questi racconti, alla fine, un popolo emerge. Il “popolo” altro non è che il compattarsi di un’intenzione, che dà vita a un sommovimento incontrollabile. Puoi solo aspettare svanisca, non puoi dirigerlo o limitarlo.
È ancora lo stesso popolo ottocentesco di Zola, di Hugo, una massa disordinata, ribelle, violenta, che in un attimo sfoga un sentimento tenuto dentro per anni, e poi si calma, si dirada, torna a essere un gruppo di individui solitari sparsi sulla piazza.
Gli eroi di Remmert rimangono a lato, guardano e non si mescolano. Né al popolo, né alla storia, che, occorre dirlo, succede sempre a qualcun altro: all’Albania, a Cuba. Ai personaggi di Remmert la storia arriva in modo inconsapevole, ma quando ci si scontrano è come finire contro un muro, è una vera ferita.
E questi personaggi che sono come potevo essere io, vedono e sentono succedere le cose come in un universo lontano, anche quando le hanno proprio al loro fianco.
Forse abbiamo vissuto così, senza rendercene conto.

Persi in un’eterna innocenza, un disincanto per le cose che altro non era che candore. Le nostre ubriacature, le birre, le ragazze, altro non erano che un gioco eterno, la nostra costruzione di uomini immersi nella loro storia, in una bolla che sembrava la vita adulta ma ancora non lor era. Ma noi credevamo che lo fosse, e per noi lo era, e l’abbiamo amata.
Ma abbiamo parlato di tre racconti, non del quarto.
Il quarto è forse il più sorprendente. Un racconto breve che materializza il male in un nero grumo di rabbia, un’allucinazione alla Edgar Allan Poe, senza apparente sollievo finale. Una sorpresa da non rovinare, da godersi dopo la lettura degli altri tre, come a cambiare le gradazioni di volta in volta e mescolare l’alto e il basso, l’orrore e la bellezza, la paura e l’amore.

E scoprire cosa rimane alla fine.